Le 5 curiosissime storie bolognesi che non conoscevi

Le 5 curiosissime storie bolognesi che non conoscevi

La storia di una città la fanno le persone che ci vivono, che interagiscono e fanno cose. Troppo spesso ce ne dimentichiamo e sfortunatamente queste storie finiscono nel dimenticatoio, sempre più rarefatte e meno definite.

Ma sono proprio questi racconti, che qualche volta tra fantasia e realtà, ci portano nel cuore di un periodo storico e di come era la vita a quei tempi in quella determinata città.

Ecco dunque cinque curiosissime storie che ci raccontano una Bologna colta, bugiarda, furba, grottesca e affamata.

1. Il bambino che si laureò in medicina

L’Università di Bologna ha visto passare tra i suoi corridoi numerosissimi personaggi poi divenuti celebri, che siano stati questi professori o studenti.

Un caso eclatante, ma forse non così conosciuto è il caso di un bambino che si laureò in medicina a soli dieci anni.

Il suo nome era Luigi Magnini, classe 1651, ottenne la laurea il 26 settembre 1661. I registri riportano che si laureò utraque facultate, cioè sia in filosofia che in medicina.

Il suo primato ancora oggi non è stato superato e, nonostante non si conosca quasi nulla di lui o della sua famiglia, ben nota è la sua carriera accademica.

Per esempio il 26 giugno 1662 tenne una pubblica disputa all’Archiginnasio su temi di logica e di medicina, fatto che mise a tacere le dicerie che sostenevano che la didattica del 1600 si fosse rammollita e che concedesse la laurea a chiunque.

Il giovanissimo Luigi insegnò all’università a studenti molto più grandi di lui. Nel tempo divenne lettore di logica, poi di teorica della medicina e infine di pratica della medicina straordinaria.

Purtroppo non si sa dove sarebbe potuto arrivare con le sue capacità e conoscenze, dato che come accadeva spesso in quel tempo, morì a soli 37 anni.

Ma l’Alma Mater bolognese ha partorito tanti altri prodigi nei più svariati ambiti, sia donne che uomini, che grazie alle loro straordinarie capacità hanno reso l’Università un centro culturale di grande conoscenza, perchè come dicevano già gli antichi Bononia Docet.

2. Il pescecane di Pinocchio

Chi non si ricorda la balena che si mangiò Geppetto “come un tortellino di Bologna” e lo tenne tra le sue grinfie per ben due anni? Un’immagine ben vivida nell’immaginario collettivo dei bambini bolognesi che incuteva timore. Soprattutto all’alba del 1900, quando ancora in città non esistevano parchi acquatici e gli unici pescecani potevano essere visti in forma di fossile al museo di paleontologia.

Per questo fece molto scalpore l’arrivo di un gigantesco pescecane, ucciso in circostanze misteriose nell’Adriatico.

Venne portato in città avvolto in dei lunghi drappi che fecero subito iniziare a circolare voci sulle sue impressionanti dimensioni.

In realtà non c’era pericolo, quello squalo era una delle vittime collaterali della Prima Guerra Mondiale che di lì a poco gli italiani avrebbero dovuto combattere in prima linea.

Un volantino apparso per le vie del centro dichiarava: “Bolognesi! Amatori del bello! Correte, affrettatevi, se volete vedere i risultati della guerra! Una mina austriaca è scoppiata nei pressi di Trieste e ha ucciso un gigantesco pescecane del peso garantito di dieci quintali e lungo dieci metri.”

Poiché un animale di tal genere portava in sé un capitale ben superiore al peso della sua carcassa, il pescivendolo Cipriano Rosi decide di massimizzare i profitti. Così, dopo aver sistemato l’animale su una piattaforma colma di ghiaccio, umettandolo ben bene per farlo sembrare appena uscito dall’acqua, lo espose al pubblico senza lesinare particolari. Disse di averlo pagato 1400 lire e lo espose nell’angolo più scenografico, tra via degli Orefici e via Rizzoli. Il prezzo per vedere la carcassa era di 20 centesimi, mentre per portarsene via un pezzo era d 1,5 lire al chilogrammo.

Un classico esempio di una Bologna che credeva a tutto, anche agli squali uccisi dalle mine asburgiche.

3. Il ladro gentiluomo

Girolamo Ridolfi era un barone senza nè arte nè parte, dato che l’unica cosa che gli era rimasta della ricchezza della sua famiglia era il “sangue blu”.

Fu quindi costretto a reinventarsi e per questo si mise a fare il ladro, senza altra ambizione che quella di rubare. Le sue erano ruberie degne di racconto, non semplici raggiri o giochi di mano.

Bologna diventò, dopo Venezia, Roma e Napoli, la sede dei suoi traffici.

Qui, si creò lo pseudonimo di Conte Lucchini e avvicinava dame e nobiluomini con modi esperti. Giocava su più tavoli come un abilissimo professionista del bluff, frequentava salotti, stringeva amicizie e seduceva vedove.

L’essenziale per i suoi colpi era quello di non commetterli a breve distanza l’uno dall’altro, delle volte faceva passare addirittura degli anni, tutto stava nel commettere i furti sotto il nome di Girolamo Ridolfi e non Lucchini.

Il vero piacere, diceva il conte, non glielo dava il denaro, ma la riuscita di ciò che aveva progettato accuratamente per mesi.

Il più famoso tra i suoi colpi fu quello del Monte di Pietà, dove la sfida consisteva nel riuscire a scalare un intero muro, perciò si era procurato una serie di bastoni di legno smontabili per ottenere una specie di scala smontabile.

Agì nella notte tra sabato e domenica del gennaio del 1789 ed il colpo venne scoperto solo il lunedì successivo. Mancavano quasi diecimila scudi in gioielli, si trattava del furto più ingente mai realizzato a Bologna.

Come accade spesso a chi piace compiacersi dei propri successi, si lasciò sfuggire qualche parola di troppo, giungendo addirittura a teorizzare l’intero piano su come fosse stato eseguito il furto, durante uno dei tanti salotti a cui partecipava. Così, una mattina all’alba venne arrestato dalla guardia cittadina insieme alla sua compagna.

Fu proprio a causa delle torture che infierirono su di lei che egli confessò, dimostrando sì di essere un ladro, ma pur sempre un gentiluomo.

Condotto alla collinetta della Montagnola, in un’ aria quasi solenne, dignitosamente si avviò al patibolo, tra le urla della folla che chiedevano la sua assoluzione, perché dopotutto non aveva fatto del male a nessuno e aveva tenuto sotto scacco la Chiesa per anni.

Ma le sentenze non vogliono sentire ragioni e quella fu la triste fine del ladro gentiluomo che l’aveva fatta franca per quasi vent’anni.

4. Lo scherzo della tela cerata

All’Ospedale di Castelfranco Emilia nel 1904 muore il bolognese Carlo Cecchi. Malato da tempo e molto amato dai suoi compagni di sala e dagli infermieri, sono proprio quest’ultimi che gli tirano un brutto scherzo, rovinando l’aurea di leggerezza con la quale aveva sempre contagiato tutti all’ospedale.

Poche ore prima della dipartita del simpatico vecchietto, due infermieri decisero di giocargli una burla. Mischiarono alla pastina in brodo prevista per la cena, due fette sottili di tela cerata, simile in tutto alla pasta all’uovo.

Lo scherzo avrebbe dovuto esaurirsi subito, quando il paziente avesse sentito la strana consistenza della tela.

Però, quest’ultimo, mandò giù ogni boccone, ringraziando come ogni volta per la cena.

La storia circolò molto in fretta, facendo ridere tutta Castelfranco. Ma in due giorni, Carlo Cecchi spirò nel suo letto d’ospedale. Subito di diffuse la voce che fosse proprio il brutto scherzo, la causa della sua dipartita e ciò causò l’intervento delle autorità giudiziarie.

Il processo durò addirittura un anno e vide sotto accusa i due infermieri e suor Paolina, la madre superiore della struttura.

Gli imputati fecero di tutto per dimostrare l’innocenza dello scherzo che avevano messo in atto, ma quello era un processo che voleva dei colpevoli. Addirittura, un dottore di clinica si offrì volontario come cavia per ingoiare due fettine di tela della stessa dimensione di quelle mangiate dal vecchio Cecchi, dimostrando che non potevano essere la causa della morte, dato che vennero ritrovate intatte nei succhi gastrici del medico.

Malgrado tale schiacciante prova, il giudice non ebbe pietà, sentenziando la pena carceraria per i due infermieri burloni, oltre che a una salatissima multa.

5. Gli acchiappagatti

Si sà che la guerra porta a compiere grandi sacrifici. Durante la Seconda Guerra Mondiale, quando le tessere per il razionamento del cibo non bastavano per placare la fame che attanagliava la povera gente da tempo, vi fu una grande ondata di “acchiappagatti”.

Avete capito bene, a Bologna nel ‘45 si mangiava carne di gatto.

I bolognesi avevano imparato a cucinarla arrosto, in umido, condita o speziata, si diceva “un cunéin co’ gli ong”, cioè “un coniglio con le unghie”

Ai facchini l’ingrato compito di acchialapparli lungo le strade. Spesso venivano serviti anche nei ristoranti, spacciati per carne di altri animali.

Nasce così il mestiere di “ciapagat”, la cui unica preoccupazione era quella di non farsi scoprire dai padroni dei poveri animali. Solitamente la pelle nera e lucida era la prediletta, proprio alla faccia del gatto nero che portava sfortuna.

Il sabato era il giorno delle consegne del miagolante bottino e guai a sgarrare, perchè la domenica era il giorno in cui finalmente si mangiava la carne.

Il gatto era stato sempre il simbolo della miseria in tavola e addirittura alla sua coda era legato un cupo sillogismo. “Chi an n avéva òn ch’s inzuchéss in cl èter” (“chi non aveva un soldo che si inzuccasse con l’altro”), sapeva infatti di avere “al gat int al fug”, cioè il gatto nel fuoco. Ciò ha una doppia accezione, quella del gatto che sonnecchia sulle ceneri del fuoco, sia quella di poterci finire a cuocere.

Alcuni acchiappagatti erano arrivati addirittura a imparare il verso delle gatte in amore per poter attirare i maschi. Insomma quando si dice “avere il gatto nel sacco”.

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