“L’é méi un bèl taŝair che un bèl parlèr”, cioè: “è meglio un bel tacere che un bel parlare”, dice un vecchio detto bolognese, ma i felsinei non ne vogliono sapere di tenere chiusa la bocca, soprattutto se possono utilizzare il loro amato dialetto.
Ecco dunque una TOP 11 dei termini dello slang bolognese che è doveroso conoscere se vi capita di passare di qui.
Se un giorno il postino al citofono vi chiede di dargli il “tiro”, mi raccomando non rispondetegli che non fumate.
Questo modo di dire tutto bolognese, infatti, significa “aprire la porta” e ha origini molto lontane.
Effettivamente risale addirittura al diciottesimo secolo, quando ancora, nelle case dei bolognesi, i portoni si aprivano grazie ad un sistema meccanico costituito da corde e catene.
Nello specifico, gli ospiti che arrivavano davanti al portone potevano annunciare la propria presenza schiacciando un pomello che faceva suonare una campanella posta all’interno dell’abitazione, essendo collegato ad essa attraverso una corda. La servitù poteva, poi, aprire il portone a distanza sganciando la serratura con un secco e forte tiro alla catena ad esso agganciata. Da allora l’espressione “dare il tiro” è divenuta a tutti gli effetti sinonimo di apertura della porta.
Questo termine dello slang bolognese era talmente tanto in uso, che anche quando arrivò l’elettricità, si è continuato ad usarlo per indicare il classico apri-porta del citofono.
Ancora oggi, a Bologna, la maggior parte delle case ha nei propri androni ha un pulsante con su scritto “TIRO” e la gente ha mantenuto l’usanza di gridare sotto ai portici “mi dai il tiro?”.
Fatto curioso è che tale espressione è estremamente localizzata nel territorio bolognese, tanto che è praticamente ignota nei dintorni.
Quando a Bologna sentite dire “porto giù il rusco”, non si intende portare a spasso il cane.
In dialetto “rusco”, starebbe a indicare una pianta cespugliosa o più precisamente un “pungitopo”, (in latino ruscus), che veniva utilizzato per realizzare scope e altri strumenti per la pulizia della casa.
Solitamente all’esterno delle antiche dimore, da quelle più opulente e sfarzose, a quelle più umili, era infatti consuetudine, avere queste piante che, come suggerisce il nome, avevano come scopo principale quello di tenere lontano i topi, portatori di malattie e razziatori di dispense. Nel rusco, venivano inoltre gettati i rifiuti, che essendo principalmente organici fungevano da concime.
Il termine rusco è diventato talmente popolare e si è mantenuto nel corso dei secoli, al punto che il servizio comunale dei rifiuti di Bologna lo ha usato creando un acronimo perfetto Rifiuti Urbani Solidi Comunali, (“R.U.S.C”).
Oggi questa parola, a Bologna e nei suoi dintorni, viene utilizzata per indicare dunque la spazzatura.
Non è inusuale sentire i ragazzi chiamarsi con questo appellativo.
Letteralmente “vèz” significa “vecchio”, ma i bolognesi lo usano un po’ ovunque come intercalare in mezzo alle frasi; “Bella vez, come stai?”. Ovviamente è da intendere in senso positivo, nel senso di “vecchio mio”, “caro amico”, “fratello”.
Può essere, però, utilizzato anche in maniera negativa per riprendere qualcuno, magari prima che ne combini una grossa, “però mi devi stare ad ascoltare, vèz!”.
Altro termine utilizzato principalmente dai regaz bolognesi è “balotta”, che significa gruppo, molteplicità di persone aggregate insieme, gruppo di amici… Viene più spesso utilizzato come verbo, ovvero “fare balotta”, ossia chiacchierare, fare conoscenza con qualcuno.
“Soccia lei là! Si è messa a frequentare una balotta di maragli!” (altro termine dialettale bolognese per indicare dei ragazzi che si mettono in mostra in modo vistoso e spesso cafone).
La regina del focolare è, nell’immaginario comune, rappresentata come una signora un po’ in carne, dal viso tondo e rubicondo, sporca di farina mentre è intenta a impastare, con i capelli raccolti da un fazzoletto.
É il simbolo dell’operosità instancabile, il cardine del tradizionale nucleo famigliare emiliano.
L’Azdora o Arzdora è una vera colonna portante della famiglia, è la massaia, colei che presiede il governo della casa (la parola “reggitrice” richiama proprio questa funzione di sostegno).
L’uso comune della tradizione voleva che l’Arzdor e l’Arzdora prendessero il nome dal loro impiego in famiglia. In casa, infatti, i contadini si ripartivano l’azienda domestica con i loro rispettivi titoli:
Ancora oggi, per i bolognesi, questa figura oltre ad essere un mito è una vera e propria istituzione.
Il termine “Umarell” indica, nello slang bolognese, un individuo in pensione, un signore di una certa età, che deve trovare il modo di impiegare le sue giornate. Il termine bolognese sta a significare omarello o omarino, ovvero un uomo di piccola statura, un ometto.
Questo termine si è diffuso nel 2005 grazie al blog “Umarells” di Danilo Masotti, da cui poi il libro “Umarells 2.0”.
Questi soggetti sono individuabili ovunque, basta prestare un po’ d’attenzione. Li possiamo trovare vicino ad un incrocio dove c’è appena stato un incidente stradale, oppure in autobus, solitamente quando è strapieno, mentre sono intenti a litigare perché sono stati appena spintonati.
L’umarell è quello che adora guardare, con le mani rigorosamente incrociate dietro la schiena, i cantieri, sproloquiando sul fatto che lui non le avrebbe fatte così quelle fondamenta.
Ha una passione per le ruspe, per le gru e i cingolati in generale, lo fanno impazzire le auto che eseguono manovre di parcheggio difficoltose, i negozi di ferramenta, ma soprattutto l’ambulatorio del medico alle 7 di mattina mentre tu sei di fretta o la fila alle poste per ritirare la pensione.
Bisogna stare attenti a criticare questi personaggi, perché l’umarell alberga dentro ognuno di noi e aspetta solo l’età giusta per manifestarsi.
Il termine che nello slang bolognese ha il significato di affare, incombenza da assolvere, ma anche piccoli lavori domestici.
“Devo andare a casa che ho un ciappino da fare” dirà il bolognese alla sua fidanzata che vuole propinargli l’ennesima serata davanti alla televisione a guardare Amici con Maria de Filippi.
La “paglia”, nello slang bolognese, è la classica sigaretta. Tipica è l’espressione del galantuomo bolognese il quale, dopo aver sorseggiato il quinto mojito velenifero al Pratello, si rivolge elegantemente al tavolo accanto al proprio biascicando: “oh, regaz, avete una paglia?”
In dialetto bolognese “bazza” significa intrallazzo. Con tale termine si può intendere anche un affare poco trasparente, ma di sicura convenienza, oppure l’ingresso in un locale perché in combutta con il titolare, senza essere costretti a fare una fila infinita.
“Ma sei riuscito a entrare?” – “Sì, c’ho una bazza con il buttafuori!”
“Soccia che storia!” dirà il vèz bolognese davanti alla news che gli hanno appena raccontato. “Soccia” è un intercalare molto utilizzato, dal significato a dir poco multiplo.
Letteralmente è un incitamento alla fellatio, ma è un’esclamazione che non ha alcun riferimento all’atto sessuale e che può essere usata in qualsiasi frangente, per esternare qualsiasi tipo di sentimento.
“Socmel che due maroni!”, esclamerà per esempio il bolognese furente bloccato nel traffico dei viali all’ora di punta.
La sua forma più italianizzata e meno volgare é “sòccia”, oppure “sòrbole”, ma tutte stanno a indicare più o meno la stessa cosa, ovvero stupore, meraviglia, una cosa da non credere.
Il significato offensivo persiste comunque, solitamente in risposta a una provocazione.
“Stare in polleg” significa di fatto riposarsi, stare calmi. “Ieri sera non sono uscito, mi son polleggiato sul divano.” Questo termine viene utilizzato spesso anche nella forma imperativa del verbo, in tono intimidatorio per raffreddare i bollori del maraglio di turno che spinge per non fare la coda all’ingresso della discoteca: “Oh, polleggiati subito!” .
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